Epidemiologia psichiatrica

L'epidemiologia, definita lo studio, nel tempo e nello spazio, della distribuzione delle malattie nelle popolazioni, in realtà non si limita a misurare e confrontare i tassi delle malattie, dei disturbi e dei sintomi, in diversi contesti e gruppi di soggetti. Essa studia anche i fattori associati all'insorgenza, al decorso e all'esito delle malattie e dà importanti contributi alla valutazione dei trattamenti, degli interventi e dei sistemi sanitari, garantendo il controllo dei fattori di distorsione (bias) che possono influenzare quelle valutazioni.

Possiamo dividere le applicazioni dell'epidemiologia in tre gruppi: 1) quelle utili nella pratica clinica, che comprendono anche la valutazione dei trattamenti e delle cure; 2) quelle per la pianificazione e la valutazione dei servizi sanitari, che includono anche la valutazione dei costi; 3) quelle usate nella ricerca delle cause delle malattie. L'epidemiologia psichiatrica rende possibile l'applicazione dei principi e dei metodi dell'epidemiologia nello studio della salute mentale, dei disturbi mentali e del loro trattamento. Essa consente anche di evidenziare eventuali associazioni tra variabili biologiche, psicologiche e sociali da un lato e psicopatologia (o salute mentale) dall'altro.

Per chiarire l'importanza dell'approccio epidemiologico per la clinica è necessario ricordare che le osservazioni che ciascun clinico fa con i suoi pazienti non vanno considerate «dati di fatto», ma devono rappresentare solo un punto di partenza. Al fine di rendere possibile un razionale approccio diagnostico e terapeutico con quei pazienti, è necessario che a queste osservazioni faccia seguito l'elaborazione di ipotesi verificabili, che suggeriscano una o più interpretazioni di quei dati clinici; ipotesi che possano essere controllate, dallo stesso clinico, utilizzando metodologie ispirate ai principi del «metodo scientifico». L'applicazione formale di tale metodo, in un setting sperimentale, prevede invece di raccogliere un numero di osservazioni adeguato, utilizzando procedure e tecniche valutative standardizzate e di provata attendibilità e validità, oltre che analisi statistiche appropriate. L'essenza del processo, è bene ricordarlo, non è la quantificazione, ma l'attenzione alla riproducibilità delle osservazioni e dei dati.

Il percorso circolare che partendo dalle osservazioni cliniche porta alla formulazione di ipotesi, poi alla loro verifica sperimentale e al trasferimento dei risultati di quella verifica nella pratica clinica, rappresenta oggi, anche in psichiatria, una strada obbligata per migliorare la qualità delle cure. Tale percorso, se seguito in modo corretto, mette al riparo dai rischi di distorsione connessi all'utilizzazione di osservazioni cliniche raccolte in situazioni non controllate. È noto che queste distorsioni inducono a commettere vari errori: si possono generalizzare osservazioni isolate e ritenere significativi risultati occasionali, anche laddove ad aver prodotto quei risultati sono stati il caso, i processi biologici spontanei (la cosiddetta «remissione spontanea») o l'intervento di fattori psicologici aspecifici (l'effetto placebo).

Secondo A. Henderson (1988) la chiave del pensare in modo epidemiologico può riassumersi in una domanda: quali sono il vero numeratore e il vero denominatore? Utilizzare l'approccio epidemiologico significa, cioè, chiedersi in che misura i casi osservati dal clinico rappresentino un attendibile numeratore, vale a dire siano rappresentativi dei pazienti che soffrono di quel tipo di disturbo. Significa anche rendersi conto che, per interpretare quei dati e quelle osservazioni, per ricavarne decisioni terapeutiche e indicazioni prognostiche, per estenderle ad altri pazienti, è necessario riferirli al «vero» denominatore. Vale a dire alla popolazione generale, invece che a quella parte «selezionata» della popolazione che giunge all'attenzione del clinico, in ospedale o in ambulatorio.

È noto che le opinioni che ogni clinico si fa, in base alla sua esperienza, sulle possibili cause, sull'evoluzione e sull'esito di una malattia, spesso sono in contrasto con i risultati della ricerca scientifica, soprattutto nelle malattie con una grande variabilità di decorso; tali opinioni sono in genere più pessimistiche rispetto a quello che i dati scientifici hanno dimostrato. I motivi di ciò (l'«illusione del clinico») hanno a che fare con i processi di selezione dei pazienti osservati negli ospedali e negli ambulatori e con le maggiori probabilità che hanno i pazienti con disturbi ad esito meno favorevole di rimanere in contatto con i servizi sanitari e di continuare ad essere ricordati, rispetto a coloro che presentano un esito migliore, e che quindi tendono a perdere il contatto con le strutture assistenziali. Dobbiamo infatti distinguere le ricerche epidemiologiche longitudinali (quelle, tra le ricerche longitudinali, che utilizzano disegni e metodi di tipo epidemiologico, selezionando e valutando pazienti «rappresentativi» della popolazione generale) dagli studi clinici di follow-up, eseguiti solo sui pazienti trattati. Solo le prime controllano e possono correggere le distorsioni alle quali si è fatto riferimento e permettono pertanto, con le dovute cautele, di generalizzare i risultati. E’essenziale che i clinici tengano conto, nel loro lavoro, dei risultati della ricerca epidemiologica invece che, semplicemente, della propria esperienza clinica.

Altre utilizzazioni dell'epidemiologia nella pratica clinica, in particolare nella tassonomia e nella classificazione, riguardano le osservazioni della frequenza con la quale si osservano associazioni di determinati sintomi, a suggerire l'esistenza di sindromi, e osservazioni che documentino sintomi, decorsi e prognosi simili, in relazione ai trattamenti ricevuti, in gruppi di pazienti, a suggerire l'esistenza di entità diagnostiche da classificare e distinguere da altre. Per quanto riguarda il contributo dell'approccio epidemiologico alla messa a punto e all'affinamento delle metodologie per la valutazione scientifica dei trattamenti e delle cure, dobbiamo ricordare che questo tipo di valutazione è iniziata solo cinquantanni fa; è cioè molto recente rispetto alla lunga storia della pratica medica. I risultati del primo studio clinico controllato (Scc), metodologia considerata ora il golden standard per la valutazione di efficacia degli interventi medici, furono infatti pubblicati solo nel 1948. Si trattava di uno studio organizzato dal Medical Research Council inglese per valutare l'efficacia della streptomicina nella tubercolosi polmonare. Un altro studio controllato, sull'efficacia di un vaccino nella pertosse, era in realtà iniziato anche prima della suddetta ricerca, ma vide la luce solo nel 1951.

La figura «chiave» nello sviluppo e nel consolidamento della metodologia scientifica idonea a valutare l'efficacia dei trattamenti in medicina è stata quella di A. Bradford Hill, professore di biostatistica. Fino ad allora l'efficacia dei trattamenti medici era stata giudicata con criteri meramente soggettivi, in base a semplici osservazioni o in studi clinici in aperto. L'applicazione del metodo scientifico alle terapie psichiatriche è ancora più recente. Il primo Scc (uno studio sull'efficacia della reserpina) fu pubblicato da D. Davies e M. Shepherd nel 1955, mentre il primo Scc multicentrico (confronto tra vari trattamenti della depressione, organizzato dal Medicai Research Council) è solo del 1965. L'efficacia dei trattamenti somministrati e talora inflitti (si ricordi il caso del coma in-sulinico) ai pazienti psichiatrici, fino ad allora, non era mai stata testata utilizzando i metodi di valutazione oggi ritenuti indispensabili per esprimere un giudizio documentato e attendibile su vecchie e nuove cure. Le caratteristiche essenziali degli studi clinici controllati sono la «randomizzazione» (l'assegnazione casuale dei soggetti al gruppo sperimentale o al gruppo di controllo) e la «cecità» (coloro che sono chiamati a valutare i risultati non sanno quale trattamento i soggetti abbiano ricevuto). Gli Scc eseguiti in setting sperimentali non rappresentano, tuttavia, l'unica metodologia possibile e hanno anche alcuni limiti (Tansella, 2003). E’ necessario quindi associare a quegli Scc, in grado di documentare l’efficacy, altri Scc condotti nel mondo reale dei servizi, su campioni numerosi e rappresentativi, utilizzando misure di esito significative e non complesse e prolungando l'osservazione e la valutazione nel tempo. Essi consentono di documentare l’effectiveness (l'efficacia nella pratica) dei trattamenti. Un ruolo importante hanno anche gli studi naturalistici, purché condotti con rigore metodologico, rinunziando a una delle caratteristiche peculiari degli Scc (la randomizzazione), ma garantendo la cecità nella valutazione dei risultati.

Il metodo epidemiologico ha fornito un contributo importante per mettere a punto queste diverse metodologie e per valutare correttamente i risultati. Per quanto riguarda il secondo gruppo delle possibili utilizzazioni dell'epidemiologia psichiatrica, quelle per il monitoraggio e la valutazione dei servizi di salute mentale, ricordiamo che, come per la valutazione dei trattamenti sui pazienti, sono disponibili diverse metodologie per confrontare servizi e modelli assistenziali diversi. Esse sono, in ordine decrescente di «potenza scientifica»: 1) studi controllati randomizzati (in questo caso la randomizzazione serve ad assegnare i pazienti, in modo casuale, ai servizi invece che ai trattamenti); 2) studi controllati non randomizzati e studi quasi-sperimenta-li; 3) studi naturalistici di esito condotti in situazioni di routine; 4) osservazioni non strutturate condotte nella pratica clinica. E evidente che più ci si muove dal primo al quarto di questi metodi più aumentano i rischi di distorsione per l'intervento di variabili non controllate.

La programmazione e la valutazione dei servizi non possono ignorare i bisogni esistenti nella popolazione e la diffusione dei disturbi (morbilità). Gli studi epidemiologici descrittivi forniscono una stima dei tassi di prevalenza dei disturbi mentali in una specifica popolazione. Per alcuni di essi, come ad esempio la schizofrenia, può essere infatti sufficiente studiare i pazienti in trattamento nei servizi specialistici (la grande maggioranza delle persone sofferenti di questo disturbo che vivono in comunità). Per altri, come ad esempio i disturbi d'ansia e i disturbi depressivi, poiché solo una minoranza delle persone affette si rivolge ai servizi specialistici, lo studio va condotto in campioni della popolazione generale o tra i pazienti dei medici di medicina generale.

Il «tasso di prevalenza» è rappresentato dal rapporto tra numero totale di soggetti con il disturbo in un intervallò temporale prefissato (in genere un giorno o un anno), e numero di persone a rischio in una determinata popolazione. La «prevalenza nella vita» rappresenta la proporzione della popolazione che ha sofferto, in qualche momento nel corso della propria vita, del disturbo. Il «tasso di incidenza» è invece una proporzione calcolata utilizzando al numeratore il numero di soggetti che si ammalano di quel disturbo per la prima volta nel periodo di tempo determinato o per la prima volta nel corso della loro vita (pazienti first ever). Ricordiamo che, oltre ai suddetti tassi, per confrontare l'impatto che le diverse malattie hanno sulla salute pubblica l'Organizzazione mondiale della sanità utilizza i Disability Adjusted Life Years (DALYs). Si tratta di una misura che si ottiene stimando sia il peso che deriva alla società dalla mortalità provocata da una determinata malattia o patologia, sia il peso legato alla disabilità che la stessa malattia induce, calcolato tenendo conto della gravità e della durata della disabilità (Oms, 2001).

I dati epidemiologici hanno dimostrato che la percentuale attribuibile alle malattie mentali, del totale dei DALYs che si riferisce a tutte le malattie, è dell' 11,6%: una percentuale doppia di quella attribuibile a tutte le neoplasie (5,3%) e più elevata di quella dovuta alle malattie cardiovascolari (10,3%). La depressione è al quarto posto tra le malattie elencate in ordine decrescente di DALYs ed è responsabile del 4,4% del totale dei DALYs.

Sono stati condotti sinora numerosi studi epidemiologici su campioni rappresentativi della popolazione generale in diversi paesi, utilizzando interviste standardizzate per consentire la diagnosi dei più comuni disturbi psichiatrici. Una ricerca recente, condotta sotto l'egida dell'Oms su 60 463 persone in 14 paesi, ha confermato la grande variabilità dei tassi di «prevalenza un anno» dei disturbi mentali (dal 4,3% a Shanghai al 26,4% negli Stati Uniti); molti erano di gravità lieve (dal 33% in Colombia all'81 % in Nigeria). I disturbi più frequenti sono risultati quelli d'ansia, seguiti dai disturbi depressivi. Dal 33 al 50% (nei paesi sviluppati) e dal 76 all'85% (nei paesi in via di sviluppo) dei casi gravi non aveva ricevuto alcuna forma di trattamento nell'anno precedente la ricerca. La maggior parte delle persone trattate appartenevano al gruppo dei casi di gravità lieve o dei non casi (quelli con disturbi sottosoglia), il che impone una ridistribuzione delle risorse a vantaggio dei pazienti più gravi (Oms - World Mental Health Survey Consortium, 2004).

Per quanto riguarda, infine, il contributo dell'epidemiologia alla ricerca delle cause delle malattie mentali esso è stato ed è innanzitutto un contributo di «metodo», utilizzato anche negli studi eziopatogenetici e di psichiatria biologica. Le malattie mentali sono malattie multifattoriali, per cui è difficile attendersi l'identificazione di un'unica causa, necessaria e sufficiente. È importante, tuttavia, ricordare alcuni esempi nei quali l'utilizzazione del metodo epidemiologico è stata, al riguardo, decisiva. Quella fornita da J. Goldberger a proposito della pellagra, malattia responsabile di una psicosi paranoide allucinatoria e, talora, di una sindrome neurastenica cronica, che nel secolo scorso fu responsabile dell'internamento in manicomio di migliaia di malati, è la più elegante e convincente dimostrazione, nella medicina moderna e in psichiatria, dell'importanza del metodo epidemiologico. Nel 1914, quando l'ipotesi infettiva e quella del mais guasto erano le più accreditate, Goldberger, un epidemiologo clinico senza alcuna precedente esperienza nello studio delle malattie mentali, ricevette negli Usa un ricco finanziamento e l'incarico di studiare il fenomeno al fine di identificare la causa della pellagra e trovare un rimedio. Goldberger riuscì a dimostrare, servendosi esclusivamente di metodi epidemiologici, che la pellagra era una malattia carenziale; innanzitutto egli escluse l'ipotesi infettiva, osservando i pattern d'incidenza della malattia: essa da un lato poteva comparire anche dopo molti anni di ricovero in manicomio, dall'altro colpiva solo i pazienti, mai gli infermieri e il resto dello staff. Ritenendo che una differenza sostanziale tra i due gruppi (i pazienti e lo staff), meritevole di essere indagata, fosse rappresentata dalla dieta, riuscì a verificare, con una serie di brillanti ricerche sul campo e di esperienze pratiche, tutti e quattro i postulati che aveva anticipato dovessero essere soddisfatti per stabilire l'associazione tra carenza dietetica e malattia. Essi erano: 1) che potesse essere dimostrata una differenza nella dieta tra soggetti affetti da pellagra e soggetti indenni; 2) che la malattia fosse trattabile con una dieta appropriata; 3) che fosse possibile prevenirne l'insorgenza con una dieta adeguata; 4) infine, che la malattia potesse essere riprodotta sperimentalmente mediante una dieta carenziale.

Solo dopo aver stabilito il nesso tra dieta e malattia, Goldberger e i suoi collaboratori cominciarono ad analizzare la catena dei fattori causali della pellagra. Nonostante il fattore carenziale da lui identificato (si noti, un fattore dietetico, dunque biologico) fosse risultato necessario e sufficiente a determinare la malattia, nell'analisi egli tenne conto non solo della natura della deficienza specifica, ma anche degli aspetti sociali, economici e psicologici legati alla carenza dietetica. Una metodologia di ricerca esemplare, da ricordare a molti sostenitori dell'eziologia biologica delle malattie mentali, ancora oggi incapaci di guardare al di là della biologia. Alla morte di Goldberger fu quindi possibile formulare l'ipotesi che il principio atto a prevenire la pellagra fosse contenuto nella frazione termoresistente della vitamina idrosolubile B; occorsero però otto anni affinché questa sostanza fosse identificata come acido nicotinico.

Le osservazioni di un clinico e poi l'analisi epidemiologica dei dati da lui effettuata sono state in grado di anticipare anche l'identificazione della causa (di nuovo biologica) di un'altra diffusa malattia di interesse psichiatrico, la paralisi progressiva. Si ritiene che l'origine sifilitica di questa malattia sia stata dimostrata da H. Noguchi e J. Moore che, nel 1913, scoprirono la presenza del treponema nelle lesioni cerebrali dei pazienti affetti. In realtà l'identificazione dell'infezione sifilitica come causa della paralisi progressiva era stata opera, circa trent'anni prima, di un medico danese, V. Steenberg, che aveva lavorato per anni nella Clinica dermatologica dell'Università di Copenaghen e, durante una visita occasionale al manicomio Saint Hans, riconobbe alcuni suoi vecchi pazienti, lì ricoverati perché affetti da paralisi progressiva. Colpito da questa coincidenza decise di indagare in modo sistematico l'esistenza di un'associazione con la sifilide, utilizzando i dati clinici disponibili nelle cartelle e altri documenti. Le conclusioni della sua ricerca, che supportavano l'ipotesi di un'associazione causale, furono riportate nella sua tesi di dottorato e riferite anche a un Congresso internazionale nel 1884. Esse, tuttavia, furono accolte con scetticismo dall'ambiente medico e accademico dell'epoca e di quella scoperta non si conservano che poche tracce.

B. Cooper (1993) ha ricordato anche altre ricerche epidemiologiche che hanno permesso di identificare la causa di disturbi mentali. Ad esempio la scoperta, nei primi anni '50, di un fattore tossico-ambientale come causa della comparsa, in una cittadina vicina a Montpellier, di una serie dì casi di sindromi acute deliranti, con allucinazioni, agitazione psicomotoria e stati confusionali. Si trattava dell'ergotamina, che aveva contaminato la farina con cui veniva preparato localmente il pane. Inoltre, un elegante studio epidemiologico retrospettivo, pubblicato nel 1970 e condotto riesaminando dati ed evidenze cliniche a 15 anni di distanza dagli eventi, ha permesso di riconoscere l'eziopatogenesi di tipo psicogeno («isteria epidemica») di disturbi che avevano colpito più di 100 infermieri del Royal Free Hospital di Londra e che erano stati inizialmente interpretati come disturbi di tipo virale («encefalomielite mialgica benigna»). Ricordiamo inoltre gli studi epidemiologici che hanno dimostrato l'importanza di una serie di fattori di rischio. Ad esempio, quello degli eventi della vita nell'origine dei disturbi ansiosi e depressivi (Goldberg e Huxley, 1992); gli studi sul ruolo dei fattori sociali sull'insorgenza della depressione nelle donne londinesi appartenenti alle classi svantaggiate (Brown e Harris, 1978; Brown, 1991); le ricerche sul ruolo delle emozioni espresse e dell'atmosfera familiare sulle ricadute nella schizofrenia (Leff, 1991); gli studi longitudinali che hanno dimostrato che l'uso di cannabis aumenta il rischio di ammalarsi di schizofrenia (Verdoux, 2004).

In conclusione, l'applicazione del metodo epidemiologico alla psichiatria consente di prendere decisioni corrette nella diagnosi e nella cura dei singoli pazienti, nella valutazione dell'efficacia dei trattamenti e dei servizi e nella ricerca sulle cause delle malattie mentali. L'utilizzazione di quella epidemiologica va associata ad altre metodologie di studio (ad es. genetiche, di biologia molecolare, quelle usate dalla psicologia e dalla farmacologia) per comprendere il ruolo dei fattori biologici, psicologici e sociali (e delle loro interazioni) nella comparsa, nel decorso e nell'esito dei disturbi mentali.

MICHELE TANSELLA